Parità di genere: perché può essere un valore aggiunto in azienda
Gentili clienti,
La parità di genere può essere un valore aggiunto per le imprese? In quale modo?
Si tratta, indubbiamente, di un valore aggiunto. Politiche aziendali che riducono il divario di genere portano con sé una crescita delle competenze, un incremento di qualità dei processi e trainano una crescita della reputazione dell’impresa.
Alla necessità di giustizia sociale, che riguarda i diritti di oltre la metà dell’umanità, si accompagnano, nell’adozione di politiche di parità, benefici concreti definiti dal legislatore, come la certificazione della parità di genere che porta con sé sgravi contributivi. Ebbene, per l’impresa questo è un limite funzionale che mortifica non solo le lavoratrici, che vedono frustrate le proprie aspettative, ma anche la capacità dell’organizzazione di raggiungere risultati migliori.
Per limitare il Gender Pay Gap si deve orientare in modo corretto la contrattazione. Si deve prendere atto del fatto che sta diventando sempre più anacronistico il solo criterio della presenza al lavoro ai fini della determinazione della retribuzione e della produttività dell’impresa. Oggi, ritroviamo forme di organizzazione del lavoro nelle quali si deve valutare l’adempimento in termini di obiettivi raggiunti, anziché, semplicemente, di ore lavorate. Il criterio, rigido, della presenza in servizio può essere, inoltre, indirettamente discriminatorio, manifestandosi in ragione del divario nel tempo lavorato che deriva dalla persistente asimmetria nella distribuzione dei carichi di cura tra uomini e donne. Il gender pay gap può insediarsi nei premi di produttività e di risultato.
Una previsione legislativa in questo senso esiste già nel comma 183 dell’articolo 1 della legge di Stabilità per il 2016, che enuncia, ad esempio, che “ai fini della determinazione dei premi di produttività è computato il periodo obbligatorio di congedo di maternità”.
Dunque, applicando la norma, nella contrattazione aziendale si possono impedire pratiche aziendali potenzialmente discriminatorie, evitando ambiguità o vuoti normativi sul punto all’interno degli accordi aziendali.
Nel caso in cui si intenda mantenere il criterio della presenza in servizio, l’impatto discriminatorio può essere eliminato con la previsione negoziale di misure correttive volte a includere determinate assenze collegate ad esigenze sociali nel calcolo del diritto alla retribuzione.
Nel 2022 le lavoratrici madri che hanno lasciato il lavoro sono aumentare quasi del 19% rispetto al 2021. La crescita è costante negli ultimi dieci anni. Come possiamo invertire il trend?
Come affermato sopra, si deve operare per un’equa distribuzione del lavoro di cura. Inoltre, si deve produrre una legislazione efficace, che oggi stenta ad affermarsi, per valorizzare il congedo di paternità obbligatorio, muovendosi verso un equo congedo di genitorialità.
Allo stato attuale, per il padre sono previsti 10 giorni di congedo obbligatorio retribuiti al 100%, cifra nettamente inferiore rispetto ai 5 mesi del congedo di maternità.
Ma si deve andare oltre; è necessario promuovere la trasparenza e la rendicontazione delle politiche di genere nei contesti aziendali attraverso gli obblighi di reportistica e la certificazione volontaria della parità di genere. Si tratta, in poche parole, di promuovere la messa in trasparenza delle politiche interne ai contesti lavorativi così da far emergere le criticità che causano o aumentano il gap di genere sul lavoro.
Da questo processo, tra l’altro, non viene esentata neanche la pubblica amministrazione, vincolata dal legislatore a presentare il “bilancio di genere”. È proprio la progressiva affermazione della dimensione di genere nelle politiche pubbliche, in modo trasversale e non frammentato, a rivelare il grado di maturità delle politiche nazionali in termini di inclusione sociale e parità. Questo indirizzo è fortemente raccomandato dall’Unione Europea ed è oggetto di iniziative legislative che cominciano ad andare oltre la sperimentazione.